Iolanda - Percorsi dell'anima prigioniera (prima parte)

di Nicola Ghezzani

L'occasione personale

Nel 1998 conclusi la mia seconda analisi. Dopo aver dedicato poco meno di dieci anni a studiare il possibile rapporto fra la Psicoterapia dialettica e la Psicoanalisi (sforzo testimoniato da una decina di articoli scientifici pubblicati sia su Gli argonauti, la rivista di Davide Lopez, che su Koinos Gruppo e funzione analitica, la rivista della scuola bioniana di Roma), tornai ai miei temi più consueti. Quel tentativo mi aveva molto arricchito sul piano della riflessione culturale, ma occorreva rilanciarlo dall'altro punto di vista, quello della Psicoterapia dialettica, meglio orientata a sostenerlo in virtù della sua ampia apertura epistemologica.

Di getto pubblicai, nel 1998, “Passioni psicotiche” [2], un denso volumetto sulla psicosi che oggi non è più in commercio. Nel libro tornavo a porre nel fuoco dell'attenzione teorica punti di vista a me cari, che la psicoanalisi — soprattutto italiana, chiusa nel “clericalismo” freudo-kleiniano — ignorava pressoché del tutto: l'antropologia storica e la storia sociale, la psicologia antropologica e storica e l'antipsichiatria. Quindi, nel 1999, pubblicai un ultimo articolo su Gli argonauti. Nonostante la stima per la rivista e i suoi autori, avevo bisogno di prendere il largo. L'articolo si intitolava “Iolanda. Percorsi dell'anima prigioniera” [3] e rievocava un incontro clinico avvenuto quasi quindici anni prima, nel 1985.

Di questo incontro avevo già fatto ampia relazione nel 1986 nel primo capitolo di uno scritto destinato a una circolazione privata, intitolato Verso una psicopatologia dialettica. Il lavoro venne distribuito ma mai pubblicato; sicché andò a costituire, tredici anni dopo, il primo capitolo di Passioni psicotiche. A distanza di tredici anni dalla sua stesura costituiva, dunque, il ritorno di un “rimosso culturale”. Il libro, con l'articolo del 1999, rappresentarono anche un addio (o un arrivederci) al tema della psicosi, che era stato il cavallo di battaglia della rivoluzione psichiatrica americana degli anni 50 e, a maggior ragione, dell'antipsichiatria europea e americana degli anni 60-70.

Un addio perché avevo intuito sin d'allora — cosa confermata negli anni successivi — che la battaglia sulla psicosi ingaggiata con l'ideologia neopsichiatrica era persa. Persa perché ormai la “ricerca” scientifica non era più nelle mani degli scienziati e degli intellettuali, ma era passata sotto il controllo delle multinazionali del farmaco e della moltitudine di attori sociali iscritti nel loro libro paga. La sproporzione economica tra le due compagini (la psichiatria medico-biologica e la psicologia e la psichiatria scientifico-umanistiche) era immensa e la prospettiva di un “credito” e di un “profitto” di facile conseguimento attraeva una quota crescente di attori sociali nella rete dei grandi monopoli.

La conseguenza immediata di ciò fu che dalla fine degli anni 70 fino ad oggi, vennero catapultati sui media psichiatri di nessuna levatura culturale, ma accreditati di “competenza tecnica” e i loro relativi “pazienti” più o meno famosi, i quali spergiurarono sulla natura biologica, genetica, del disturbo psichiatrico, invitando in modo sempre più esplicito al consumo di psicofarmaci.

A testimonianza di questa deriva antiscientifica, basta citare la scomparsa e la mancata riedizione di opere fondamentali sulla psicosi come la “Psicopatologia generale” di Karl Jaspers, il “Manuale di psichiatria” e “Interpretazioni della schizofrenia” di Silvano Arieti, tutta l'opera di Sullivan e Goffmann e una parte consistente dell'opera di Laing. Unico recente superstite di questa tradizione, l'ottimo libro di Luigi Anepeta “Miseria della neopsichiatria” ([1]).

Uno sguardo sul mondo

In breve, dalla fine degli anni 70 a oggi, sulla spinta dell'imperialismo culturale farmaceutico, non solo la psicosi ma anche la depressione e poi l'ansia tout court vennero considerate “patologie” di stretta pertinenza medica, da gestire, vita natural durante, con psicofarmaci.

Si creò allora quella connivenza fra industria farmaceutica, associazioni di pazienti, mondo dell'informazione e capitale mobile che ancora oggi domina il campo della psicopatologia. La capillare corruzione economica o quanto meno clientelare, mediatica e ideologica di cui questo network fu ed è capace è tale da far sì che la psicoterapia sia oggi da intendere come una forma di “resistenza” scientifico-umanistica all'economicismo imperante (di cui l'industria bio-medica è il vettore emergente). Ben inteso, mi riferisco ad una psicoterapia non integralista: perché gli psicofarmaci sono spesso utili; inutile è il medicalismo, cioè il proselitismo medico-industriale che mette ogni soluzione umana sub specie medica.

La miope superficialità della logica economicista s'è resa ben evidente con la recente crisi finanziaria mondiale. Non di meno, la coscienza collettiva è ancora ben lontana dal capire che la crisi finanziaria è stata il prodotto dello sradicamento del “credito” (cioè della fiducia collettiva) dalla contingenza fattuale, cioè dalla umile realtà quotidiana: la finanza drogata non è di natura diversa dalle menti drogate dal mito del successo e da psicofarmaci che ottundono il disagio e la sofferenza.

Fra parentesi, non è difficile immaginare quali altri ambiti verranno investiti da crisi future. Una enorme crisi eroderà il mondo della scuola: avverranno crolli più o meno gravi del sistema scolastico mondiale, che già si annunciano nel numero crescente di adolescenti che esplodono in episodi sociopatici distruttivi o in happening psicotici omicidi o implodono in depressioni, anoressie, autolesionismi. involuzioni schizoidi, insabbiamenti scolastici, ecc. (patologie di cui la gestione medica e socio-psichiatrica è in parte responsabile), e in una crisi generalizzata del corpo docente (di tutto ciò ho già dato indicazioni in [4]). Come è di più agevole prevedibilità un collasso non meno grave del sistema sanitario globale, che verrà sempre più delegato a istituzioni e corpi privati e a una medicina “fai da te”.

Su questo articolo

Nel 1999 scrissi e pubblicai l'articolo che qui presento, che della storia clinica con Iolanda rappresenta la versione più articolata e complessa (ulteriormente rimaneggiata nel 2000). Per la prima volta, in questo scritto, mi posi domande dirette sul significato intimo (controtransferale) che quella figura ebbe per me, all'interno della mia psicologia personale.

“Iolanda. Percorsi dell'anima prigioniera” è dunque la cronaca di un ricordo di una fondamentale esperienza empatica ed intima occorsami da giovane terapeuta. La donna di cui racconto la storia non divenne mai una mia paziente, e tuttavia fu nella mia memoria come la nostalgia di qualcosa di sospeso e non realizzato.

Conoscerla mi dette l'opportunità di mettere a fuoco un'infinità di temi che si svilupparono nel corso di molti anni successivi: la sensibilità relazionale, l'empatia alienata e il sacrificio dell'io, l'opposizione negata, la scissione dell'io, la creatività imprigionata, il masochismo del fallire, l'etica della testimonianza, la veridizione… e tanto, tanto altro…

Una scheggia di follia che, come il frammento di uno specchio, mi consente — ancora oggi — di guardarmi dentro con una sconcertante profondità.

(Anche questo articolo — di cui consegno solo i primi due capitoli, in attesa di riscontri positivi nei lettori — è in PDF. Scaricalo….)


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Bibliografia
1. Anepeta, L., Miseria della neopsichiatria, Franco Angeli, Milano 2001.
2. Ghezzani, N., Passioni psicotiche, Melusina, Roma, 1998.
3. Ghezzani, N., Iolanda. Percorsi dell'anima prigioniera, Gli Argonauti XXI 82: 235-259, 1999.
4. Ghezzani, N., Crescere in un mondo malato, Franco Angeli, Milano, 2004.
5. Ghezzani, N., La logica dell'ansia, Franco Angeli, Milano, 2008.
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