Ancora sulla Psicomemetica

Contestualizziamo il concetto

di Nicola Ghezzani

Nel 2009 ho scritto un articolo, pubblicato su questo sito [4], in cui figurava per la prima volta già nel titolo il neologismo Psicomemetica. La psicomemetica costituisce a mio avviso un nuovo campo scientifico: un campo di mediazione fra psicologia e memetica.

Ho coniato questo nuovo termine allo scopo di fare una sintesi delle elaborazioni presentate nel mio libro La logica dell'ansia [2], nella cui seconda parte è appunto analizzato il rapporto fra la psiche individuale e collettiva e quella entità culturale scoperta da Richard Dawkins e descritta nel suo Il gene egoista [1] che egli ha definito meme.
Il meme è l'unità imitativa minima (depositata dunque nella memoria biologica e/o culturale di una specie) che gli individui fanno propria per imitazione e che incarnano il più delle volte senza esserne consapevoli. Un modo di pronunciare una parola, un modo di portare un cappello, un modo di accudire un bambino, un modo di amare o di uccidere, di godere la vita o di fare suicidio ecc. sono memi, strutture eidetiche, forme vissute di pensiero, che possono costituire o no delle “mode” sottoposte, come ogni cosa nell'universo, alla permanenza o alla distruzione nel tempo, quindi a una selezione darwiniana.

Quando ho coniato il termine ero convinto che presto sarebbero intervenuti studi a confermarlo. E così è stato. In questo momento il sito ha al suo interno alcuni articoli che possono essere ascritti a questa nuova disciplina o almeno letti in questa accezione. A onor del vero però alcuni erano presenti prima ancora che sorgesse il termine a identificarli come parti di una stessa ricerca. Nulla di strano: un nuovo concetto è un buon concetto nella misura in cui non solo orienta il presente e il futuro, ma riorganizza il passato secondo le sue linee.

Il primo articolo — pubblicato appunto ben prima della genesi del termine — è stato il mio articolo dedicato all'autolesionismo [3]. Al termine, in un paragrafo intitolato “L'autolesionismo come tendenza epocale”, scrivevo:

Intesa come protesta di categoria (di alcune frange giovani o di marginali) l'autolesionismo da solitario e nascosto può divenire un fenomeno trendy, di tendenza, e come tale esibito (almeno nei suoi stili e nei suoi risultati ultimi).
Coltivato come una forma di moda e di comunicazione interpersonale, l'autolesionismo non è allora più da considerare una semplice psicopatologia bensì una forma complessa di “perversione morale”, gli strumenti della cui risoluzione dovranno pertanto essere non solo psicologici ma anche di carattere psico-sociale, politico e culturale.
La patologia rivela, dunque, una grave lacuna culturale: la società attuale si mostra esperta nella gestione fisica delle persone (sacralizzando il concetto di salute del corpo e di amore di sé), di fatto però fingendo di ignorare che la salute del corpo è un effetto della sua libertà; e che la libertà del corpo coincide sempre con una coscienza personale in grado di opporsi in modo fruttuoso ai condizionamenti sociali.
In sintesi, ciò che manca al giovane autolesionista è il pieno sentimento del diritto a opporsi al dogma sociale che comanda la fruizione passiva del benessere fisico piuttosto che l'analisi profonda del malessere psichico, sia personale che collettivo. Da una parte la sua famiglia vive immersa in una psicologia di beni e di sicurezze fisiche; dall'altra, la società intorno lo espropria del corpo (come fa con tutti), per metterlo a servizio dell'industria del benessere, delle politiche sociali e di una medicina sempre più invasiva e coattiva. In questo panorama di controllo assoluto dei corpi a tutto sfavore del rispetto per la psiche individuale e la dignità della persona — che comprende il diritto di proprietà sul corpo personale — l'autolesionista gioca la sua partita di resistenza: un lento, inesorabile teatro della violenza e della provocazione.

Era chiaro nell'articolo il conflitto in atto fra diversi modelli culturali e valoriali. In esso era dunque già delineato un preciso campo di ricerca.

Il secondo articolo che lavorava intorno al concetto di psicomemetica senza tuttavia esplicitarlo è stato quello di Francesco Napoleoni dedicato al fenomeno dei nerd e dei geek [7], gruppi di individui “matti” per l'informatica, nel quale fra l'altro è scritto:

È importante notare che il lavoro di queste persone era per loro un'attività totalizzante— quasi una “missione” —, che influenzava la loro Weltanschauung in maniera molto profonda: i vari gruppi di lavoro formavano quasi delle comunità a sé all'interno degli atenei e nei laboratori delle grandi aziende, con una propria cultura, un proprio linguaggio, le proprie idiosincrasie.

E di seguito:

Un'ulteriore sottocultura, analoga a quella geek ma proveniente dal Giappone, è quella degli Otaku, cioè gli appassionati in maniera ossessiva soprattutto di Manga e Anime e videogiochi, la quale cela purtroppo anche una quota di individui disagiati, chiamati Hikikomori, che si autoconfinano in casa, rifiutando il contatto con la loro società e rifugiandosi nel mondo parallelo della Rete, passando le proprie giornate tra il letto ed il computer; talvolta questi individui albergano delle depressioni gravi o delle psicosi, ed una certa percentuale commette suicidio. Il fenomeno hikikomori sta creando un crescente allarme sociale in Giappone, ove si stima che riguardi circa il 20% dei giovani.

A questi articoli hanno fatto seguito due ottimi lavori di Michela Guerra: il primo, “Le immagini giovanili della morte” [5], dedicato al fenomeno sociale dei ragazzi Emo. Il secondo, ancora più ricco e interessante, dedicato appunto alla comunità memetica1 giapponese degli hikikomori [6].

In aggiunta a queste considerazioni, l'articolo appena citato di Michela Guerra presenta per la prima volta il concetto di noi antitetico ricalcato su quello già noto di io antitetico. Il concetto è di grande interesse, quindi lo assumo come parte integrante della teoria, ringraziando Michela per lo sforzo fatto per definirlo.


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