Introversione

1. L'introversione come carattere psicologico distintivo

La distinzione corrente fra introversione ed estroversione è, nella nostra cultura, gravemente compromessa dal pregiudizio. In generale, dell'individuo introverso si dice che tende a ripiegarsi in se stesso, a interessarsi in modo “morboso” del proprio mondo interno, con distacco e chiusura nei confronti del mondo esterno e dei contatti sociali. Per contro, dell'estroverso si afferma che è un individuo con spiccati interessi verso l'ambiente esterno, tendenza a esprimersi e manifestarsi, e quindi facilità ad inserirsi nel contesto sociale.

Relativamente a introversione ed estroversione, dunque, si esprimono meri “giudizi di valore”, pregiudizi gravemente penalizzanti nei confronti di quella caratteristica psichica che è l'introversione. Nel linguaggio quotidiano, la parola “introverso” evoca significati quali: chiuso, taciturno, insicuro, poco socievole, passivo; “estroverso” viceversa significati opposti, quali: aperto, comunicativo, spigliato, attivo, intraprendente. Per quanto si riconosca che molti introversi hanno una sensibilità e un'intelligenza fuori del comune, il loro modo di porsi, equivocato spesso come scostante e altezzoso, provoca reazioni di antipatia, mentre gli estroversi, eccezion fatta per quelli insopportabilmente narcisisti e invadenti, sono giudicati generalmente simpatici.

Si può immaginare che prezzo di dolore comporti questo facile e stolto pregiudizio quando vada a colpire dei bambini. I bambini introversi sono percentualmente minoritari rispetto agli estroversi (forse non più del 10%); ma ciò che, di fatto, li rende gravemente a rischio è che, essendo bambini e perciò ingenui e spontanei per natura, non possono nascondere ciò che essi sono, cosa che li rende più visibili e perciò più aggredibili rispetto agli adulti egualmente introversi.

I bambini introversi sono appartati e silenziosi, mentre la scolarizzazione, e non di rado le stesse famiglie, richiedono e impongono la relazione sociale continua e il valore assoluto della comunicatività. Sono sensibili e riflessivi, mentre il mondo scolare e quello sociale in genere “sponsorizzano” personalità competitive, orientate al successo, e dunque adattate ai valori di distinzione e di insensibilità propri della casta “dominante”. Sono fantasiosi (“distratti”), quindi disadattati rispetto ad un mondo che esige pragmatismo e risultati rapidi ed efficaci. Non è artificioso dedurre da ciò che il bambino introverso sia oggetto di una vera e propria discriminazione quando non addirittura di una persecuzione.

Il mondo, dunque, è degli estroversi, che fanno il buono e cattivo tempo, imponendo per di più il loro modo di essere come parametro della normalità. Gli introversi, che spesso hanno delle ricche potenzialità emozionali e intellettive, vivono in un cono d'ombra, defilati, frustrati. Fatalmente contagiati dal codice culturale prevalente, essi stessi finiscono per ritenersi inadeguati, meno capaci degli altri, gravati da tratti di carattere che, quando non patologici, giudicano comunque inadeguati. Ciò li induce a nutrire un sordo risentimento nei confronti della natura, responsabile di un carattere che crea solo problemi, associato spesso ad una rabbia più o meno consapevole nei confronti della società che li umilia e li emargina. La maggior parte di essi, dunque, giunge a ritenersi “inadeguata” al mondo, con esiti drammatici. Spesso, l'introverso sviluppa ansia in rapporto all'interazione sociale e depressione per via del giudizio spregiativo o comunque negativo su di sé. Altri, come non bastassero le sollecitazioni esterne ad essere “normali”, tendono ad adottare, per mimetizzarsi, dei moduli comportamentali estroversi. Nella misura in cui ci riescono, realizzano tutt'al più un “falso sé”, una caricatura del loro vero essere.

La supremazia sociale dell'estroverso, con la conseguente emarginazione (e auto-emarginazione!) dell'introverso riflette, dunque, di una precisa gerarchia di valori. Si tratta tuttavia di una gerarchia di valori banale, appiattita sugli schemi sociali attualmente più in voga, che risentono dell'andamento di una società orientata ai valori di mercato. La “brillantezza”, ossia la capacità di sapersi vendere; la “volontà comunicativa”, cioè la deferenza verso l'atto di scambio; la “solidarietà”, intesa come costrizione all'attivismo sociale; il “pragmatismo” e l'“utilitarismo”, adeguati a realizzare l'uso insensibile dell'altro essere umano e dunque il perseguimento del mito conformistico del successo, sono i valori dominanti, più facilmente assimilabili da individui poco riflessivi piuttosto che da individui inclini alla sensibilità, al distacco intellettuale e all'intelligenza critica.

Occorre, dunque, modificare questa banale gerarchia di valori. Mi si chiede: in che modo? Rispondo: creando dei paradossi. 
Il primo paradosso consiste nello svelare che l'introversione esiste in quanto esprime attitudini biologiche altamente specifiche, necessarie alla sopravvivenza della specie umana nel suo complesso, attitudini che hanno pertanto un valore oggettivo. In un certo senso, l'attitudine introversiva rappresenta l'ultima e più “moderna” sfida che la specie umana abbia lanciato a se stessa, ad una specie che finora ha espresso il meglio di sé nel campo delle relazioni sociali di cooperazione e delle tecniche di dominio della natura.

Per contro, l'introverso si volge dentro di sé perché lì trova il suo ambiente elettivo: un mondo nel quale confrontare i prodotti della sua sensibilità e intelligenza agli oggetti presenti e dominanti nel mondo esterno. L'introverso ha dunque in modo eminente l'attitudine a trasformare la sua sensibilità e intelligenza in concetti culturali; quindi ad usare il “mondo ideale” costruito dentro di sé sia per valutare il mondo esterno (capacità critica), che per creare un mondo nuovo (anche solo “virtuale”) qualora il mondo reale fosse insufficiente in qualche sua parte (capacità creativa).

L'introverso dunque è sempre un individuo riflessivo (e in ciò esprime la sua capacità critica); ma è spesso anche un individuo creativo (e in ciò esprime la sua capacità di invenzione e di rinnovamento del mondo). Egli “giudica” e “inventa” meglio di quanto in genere sappia fare l'estroverso. Come ho argomentato nel mio libro “Volersi male” [4], l'introverso ha la funzione socio-biologica di arricchire il “mondo delle idee”, il mondo della cultura riflessiva, atto a sorvegliare e guidare il mondo delle tecniche.

Se si ammette questo primo paradosso, ne consegue un secondo, ancora più interessante, per il quale il concetto stesso di “introversione” viene a mutare radicalmente di segno.

Se i prodotti dell'introversione hanno un valore d'uso (psicologico) e un valore di scambio (in quanto prodotti culturali) allora, per natura, l'introverso dovrebbe oggettivare la sua attività psichica. Cioè, anziché isolarsi trasformando la sua attitudine in una patologia, dovrebbe seguire l'impulso naturale, che è quello di aprirsi al mondo secondo le sue attitudini specifiche. Oggettivare significa allora far cadere la stessa distinzione fra interno e esterno.

Se vedo la cosa dal punto di vista della psiche, nel momento in cui io, soggetto introverso, mi metto in rapporto con il mondo dei simboli (con l'autore di un libro morto secoli fa; con una musica composta a migliaia di chilometri di distanza da me; con un simbolo matematico che non esiste come oggetto materiale; con un silenzio riflessivo proscritto da un regime di obbligo comunicativo, ecc.), nel momento in cui mi metto in rapporto con questo mondo simbolico e lo posso oggettivare in un giudizio critico o nella creatività, allora io divengo parte attiva del mondo esterno.

La mia introversione si estroverte come sensibilità, riflessività e creatività, senza passare per alcuna mimesi delle caratteristiche tradizionalmente attribuite all'estroversione.

Quello della giusta valutazione dell'introversione va considerato come un esempio di ciò che definisco Neuropsicologia delle differenze individuali da associare ad una Psicologia sociale delle attitudini: lo studio di caratteri psicologici e neuropsicologici differenziali; cui dovrebbe a mio avviso seguire la formazione di gruppi per la valorizzazione di tali caratteri differenziali, soprattutto se minoritari. Tale disciplina dovrebbe esplicarsi in una prassi attiva (una Pragmatica dell'intervento psicosociale).

In rapporto all'introversione, la mia attività consiste allora non solo nel curarne la specificità psicologica nel colloquio duale, ma anche nel creare contatti e gruppi di solidarietà, di studio, di sensibilizzazione, di difesa e di valorizzazione di quest'attitudine psicologica minoritaria, perché la società contemporanea sia indotta a riflettere sulla ricchezza umana che essa colpevolmente ignora, se non addirittura dileggia e perseguita.


2. L'introversione è un valore sociale?

Da molti decenni c'è una pedagogia che insiste sull'idea che l'apertura caratteriale (dunque la cosiddetta estroversione) sia più sana, “migliore”, della chiusura del carattere all'interno di se stessi (introversione). Ovunque si sente dire che il bambino aperto è sano, socievole e felice; il bambino chiuso è malato e addirittura mosso da impulsi malevoli e asociali, quindi o cattivo o comunque infelice. Occorre affermare a chiare lettere che nel fare queste affermazioni la pedagogia non si dimostra all'altezza dei suoi compiti: al compito di attenersi a un rigoroso impianto scientifico e a quello di tenere alto e sorvegliato il proprio e l'altrui impegno etico-morale. La pedagogia non è in questo caso in grado di sollevarsi dal mero senso comune per raggiungere il rigore e l'universalità della scienza. Al contrario, si è alleata con una bassa psicologia per dar luogo a un giudizio morale negativo: la condanna dell'introversione, una forma del carattere minoritaria quanto a diffusione, ma strenua quanto a resistenza al cambiamento.

Il bambino introverso non cambia, o cambia poco, e si dice che ciò è male. Alcuni psicologi si sono dati — con intenti anche molto lodevoli — ad affermare che l'introversione sia così resistente al cambiamento perché innata, ossia di natura genetica. A mio avviso, serve a poco invocare un'indimostrabile origine genetica del carattere introverso: occorre piuttosto spiegarne il significato e la funzione.

Ebbene, per capirne significato e funzione si deve partire dall'osservare che l'introversione è stata per secoli un tratto psicologico importante e tenuto in un certo onore. Per dimostrarlo bastano pochi esempi: l'imperatore Marco Aurelio scrisse per sé e solo per sé — senza l'intento d'esser letto da altri — quel “A se stesso” in cui delineò una filosofia che costituisce ancora oggi una possibile base per un'educazione all'indipendenza di pensiero e di giudizio. Teresa d'Avila (la grande Santa spagnola) scrisse quello straordinario testo che è “Il castello interiore”, nel quale rappresentò la lotta dell'anima per accedere alla perfezione spirituale. Leonardo da Vinci redasse i suoi Codici — meravigliose indagini sulla natura colme di osservazioni, di scoperte e di invenzioni — a solo uso personale, tanto da porli in una indecifrabile scrittura rovesciata. Grandi personaggi che testimoniano dell'attitudine dell'introversione a operare in favore delle idee, assunte come entità dotate di vita propria, quindi in funzione di una maggior ricchezza dei sistema di valori all'interno dei quali essi hanno operato. Per millenni, dunque, tali individui riflessivi, autonomi nell'intelletto, hanno svolto una funzione sociale riconosciuta e rispettata, in molti casi persino ammirata.

La mia ipotesi è che il bambino introverso sia il replicatore culturale di una fondamentale categoria della civiltà occidentale (e non solo): la riflessività, che in termini operativi si realizza mediante la chiusura, e che nelle sue massime espressioni pragmatiche può esprimersi nell'autarchia del filosofo che gestisce il suo io implicandosi il meno possibile col mondo esterno; nella clausura del mistico o del poeta, che attuano in un luogo solitario, relegato, la religiosa difesa di valori e pensieri imprescindibili; e nell'indipendenza relazionale e affettiva e nell'autonomia morale dell'uomo che non si piega alle consuetudini della tradizioni e all'opinione comune.

Comprensibile allora la diffidenza e persino il boicottaggio sociale nei confronti dell'individuo riflessivo: egli per sua stessa natura rimette in discussione i valori correnti, le abitudini sociali, gli interessi dei sistemi economici, le consuetudini affettive e relazionali. Egli è critico e creativo per natura.

Nel mio libro “La logica dell'ansia” [6] ho chiamato questa funzione di replicatore culturale dell'introverso selezione memetica, implicando che l'individuo riflessivo se da una parte replica se stesso (la riflessività, l'indipendenza, l'autonomia, intesi appunto come valori supremi), allo stesso tempo non può sottrarsi alla dinamica psicologica della valutazione e del giudizio sulle idee e i valori interiorizzati nel suo percorso di socializzazione (i memi) che favoriscono o al contrario ledono la sua natura di essere sensibile e autonomo. Ogni individuo riflessivo attua una invisibile, molecolare, valutazione ed eventuale rivoluzione privata.

L'introversione dunque non dovrebbe essere avversata come un male; essa riceve un grave danno se viene mal giudicata e condannata. La sua funzione di replicatore e selettore culturale dovrebbe portarci piuttosto a rispettare e ad amare il bambino introverso e l'adulto ricco di vita interiore che egli un giorno diventerà.


3. L'introversione come carattere evolutivo e valore sociale

Nel 2002 pubblicai in [4] un'ipotesi psicologica e antropologica che mi appare oggi sempre più attuale (poi ripresa e ampliata nei libri successivi, fino a [6]). Vorrei darne qui un breve cenno (rimandando per la sua valutazione globale alla lettura dei libri).

Prima di rievocarla, vorrei però far notare, molto in breve, alcune drammatiche “emergenze” del mondo contemporaneo.

Prima emergenza
il mondo globale è governato sempre più sulla base di eventi rapidi e irriflessi: si gestiscono crisi locali, situazioni di emergenza, i grandi poteri politici ed economici (nazionali e sovranazionali) mirano a sopravvivere giorno per giorno, incapaci di una visione prospettica e d'insieme. Domina, anche fra governanti seri e preoccupati dello stato delle cose, l'approssimazione e la superficialità.
Seconda emergenza
nel mondo occidentale si è diffusa un'ideologia del successo da denaro, potere o fama che miete vittime ad ogni livello della scala sociale. Per le strade i ragazzi muoiono o aggrediscono per compiere gesta memorabili da filmare e trasmettere via Internet. Dagli schermi televisivi divi cinici e ambigui, il cui unico merito è l'esibizionismo, diffondono ovunque il loro “pensiero”. Persino nelle scuole sono in vigore, in modo poco consapevole, ideologie diseducative: quella della competizione (ossia la lotta di tutti contro tutti) e la sopravvivenza del “forte” a scapito del più timido, del più sensibile, del più “debole”; e quella opposta dell'omologazione, che mira a far sentire tutti uguali senza distinguere le qualità e il valore personali: atteggiamenti psicologici generici e superficiali.
Terza emergenza
il mondo occidentale si va popolando di una psicopatologia intessuta di conflitti interni dovuti a valori morali fra loro contraddittori e concorrenti, che scindono la personalità in dubbi, incertezze, slealtà e tradimenti di ogni sorta, coi correlati sentimenti della vergogna e della colpa. Anche nella psicopatologia domina, dunque, l'incapacità di risolvere i conflitti nella profondità della riflessione. Domina, anche in persone sensibili e intelligenti, la superficialità. In aggiunta a ciò, la scienza psicopatologica si va riempiendo di messaggi non meno superficiali nei quali si promuovono terapie “veloci” che “risolvono il problema” in dieci sedute, che non analizzano la storia del paziente, che cedono il primato terapeutico alla farmacoterapia. Gli psicopatologi, in buona o in cattiva fede, sono divenuti in buona parte dei superficiali.

Siamo tutti un po' a rischio. Possibile che la specie umana (proprio in quanto specie), sempre così sottile e lungimirante, non abbia tentato di produrre, anche questa volta, una correzione all'inquietante stato delle cose che si profila nel mondo? E' la stessa specie che attraverso l'ominazione ha superato l'indigenza originaria e poi desertificazioni demografiche e glaciazioni che ne hanno minacciato la sopravvivenza nel corso di sterminati millenni?

Sì, è la stessa specie.

In [4] ho fatto un'ipotesi (poi approfondita in alcuni capitoli di [5] e in [6]: che la specie umana stia già producendo il “rimedio biologico” all'abuso dell'uomo sull'altro uomo insito nella produzione di identità superficiali e scarsamente sensibili (ma “pratiche” e perciò utili all'adattamento alla natura fisica del mondo). La mia ipotesi è che la specie stia selezionando individui dotati in una qualità specifica: la sensibilità riflessiva, che è la base di quella caratteristica psicologica che è l'introversione.

Ecco una rapida enunciazione del principio:

L'immenso potenziale psicobiologico [prodotto dalla specie e] rimasto tuttora largamente inesplorato è la capacità di interazione del singolo uomo con se stesso, cioè il potenziale introversivo-riflessivo individuale, espresso, in prima istanza, nell'immaginazione riflessiva. Potenziale nuovo perché la sua funzione non è quella di fornire strumentalità tecniche di uso immediato, bensì quella — altamente rischiosa — di confrontare mediante opposizione l'intera struttura del mondo umano oggettivo (la società) con un mondo interno soggettivo in grado di immaginare mondi alternativi diversi e migliori, e di erigersi pertanto a parametro dell'intera creazione umana.
L'immaginazione riflessiva ha dunque una finalità evoluzionistica duplice: il suo scopo è perfezionare sia le interazioni umane concrete, sia la loro oggettivazione materiale nel fenomeno storico della cultura.
([4] p. 121)

Insomma, l'individuo dotato di sensibilità riflessiva — spesso introverso — ha lo scopo biologico di rendere l'evoluzione tecnica dell'uomo e le sue produzioni sociali qualcosa di armonico e soprattutto “profondo”: ossia pensato, vagliato, riflettuto. Questa riflessione profonda, “viscerale”, porta alla possibile creazione di un mondo immaginario, ideale, contrapposto a quello reale.

Sempre in [4] scrivevo:

Il mondo interno soggettivo cresce così fino a diventare un mondo autonomo in cui vengono liberamente immaginate sia le nuove potenzialità culturali, che le stesse potenzialità di rapporto fra gli esseri umani.
(p. 40)

Infine nel 2004, in [5] (dopo averne già scritto nel 2003 sul sito psyche.altervista.org) formulavo due precisi progetti:

L'introverso possiede l'attitudine a trasformare la sua sensibilità e intelligenza in concetti culturali; quindi a usare il “mondo ideale” costruito dentro di sé sia per valutare il mondo reale (capacità critica), sia per creare un mondo nuovo (anche solo virtuale) qualora il mondo reale fosse insufficiente in qualche sua parte (capacità creativa). Quello della giusta valutazione dell'introversione va considerato come un esempio di ciò che io definisco Psicologia sociale delle attitudini: lo studio di caratteri psicologici e neuropsicologici differenziali, cui dovrebbe seguire la formazione di gruppi per la valorizzazione di tali caratteri differenziali, soprattutto se minoritari. In rapporto all'introversione, l'attività dell'educatore, dello psicologo, dell'operatore sociale, dell'intellettuale tout court dovrebbe allora consistere non solo nel curarne la peculiarità sociologica nel colloquio duale, ma anche nel creare contatti e gruppi di solidarietà, di studio di sensibilizzazione, di difesa e valorizzazione di quest'attitudine psicologica minoritaria.
(p. 102-103)

In sostanza, a soluzione del problema dell'introversione come minoranza psicologica trascurata o vessata, proponevo questi due progetti:

Primo progetto
la creazione di una nuova disciplina scientifica, che in [4] avevo definito Genetica delle differenze neuropsicologiche individuali (p. 128), in [5] chiamavo Psicologia sociale delle attitudini e che oggi, infine, per semplicità preferirei chiamare, in modo definitivo, Neuropsicologia delle differenze individuali.
Secondo progetto
la creazione di associazioni e gruppi di auto/mutuo per il sostegno psicologico e culturale della minoranza introversa e per l'informazione e la sensibilizzazione della società circa l'esistenza del problema.

Ebbene, mentre ignoro se la scienza che auspicavo sia in effetti nata, sono a conoscenza del fatto che sono sorte associazioni, gruppi di auto/mutuo aiuto, siti e forum sull'argomento. Di questa novità sono felice. Le idee circolano e, con esse, cresce e migliora l'intera società.

Per anni, digitando su Google, compariva solo un mio articolo del 2003 a segnalare l'introversione non già come patologia, ma come tratto psicobiologico di grande ricchezza, anche se di altrettanto grande potenziale di rischio. Oggi se ne sono aggiunti altri.

Due sono oggi le iniziative che riscuotono la mia sincera ammirazione: una è l'Associazione LIDI, fondata e presieduta da Luigi Anepeta, dedicata per intero allo studio e alla valorizzazione dell'introversione. L'Associazione è sorta intorno alla teoria di Luigi Anepeta, di grande efficacia, descritta nel libro “Timido, docile, ardente…” [1] e in via di continuo ampliamento sulle pagine del sito. L'altra è l'ammirevole lavoro svolto da Duccio Demetrio nella sua LUA (la Libera Università dell'Autobiografia di Anghiari), nel cui contesto è apparso l'eccellente libro di Demetrio “La vita schiva” [2], dedicato alla timidezza e all'introversione, cui sono seguiti e seguono incontri seminariali specifici.

Un'ultima considerazione.

I progetti da me delineati nel 2002-2003 — ripeto: una Neuropsicologia delle differenze individuali e la creazione di associazioni specifiche — non devono far trascurare quello che è il progetto implicito di ogni presa di coscienza così come è implicita nel lavoro quotidiano di psicoterapia (mia principale vocazione): il “dovere etico”, proprio di ciascun individuo, di realizzare se stesso in modo compiuto, di sviluppare se stesso fino alla realizzazione di una coscienza responsabile di sé e di quella parte di mondo che gli compete. La nostra difesa personale, estesa a difesa del mondo che amiamo, eviterà che si realizzi l'ingiustizia di una maggioranza in grado di determinare in termini peggiorativi il destino di una minoranza.

In questo senso, mi atterrei al principio espresso dal noto genetista Theodosius Dobzhansky (1973), che implica in prima istanza che ciascuno sia messo in grado di sviluppare le sue potenzialità individuali:

È consigliabile, e persino indispensabile per una società che i possessori di abilità rare o insolite in certi campi siano indotti a prodigarsi per raggiungere in quei campi la perfezione. Di norma, ciò significa un addestramento più prolungato e difficoltoso di quello richiesto per occupazioni più comuni e più semplici…
Non si insisterà mai troppo sul fatto che lo scopo dell'uguaglianza umana non consiste nel rendere tutti uguali. Esattamente l'opposto: è il riconoscere che ciascun individuo è diverso da tutti gli altri, e che ogni persona ha il diritto di seguire la strada prescelta (a patto di non danneggiare altri).
([3] p. 44-45)


Bibliografia
1. Anepeta, L., Timido, docile, ardente…, Franco Angeli, Milano, 2007.
2. Demetrio, D., La vita schiva, Raffaello Cortina, Milano, 2007.
3. Dobzhansky T. (1973), Diversità genetica e uguaglianza umana, Einaudi, Torino, 1975.
4. Ghezzani N., Volersi male, Franco Angeli, Milano, 2002.
5. Ghezzani N., Crescere in un mondo malato, Franco Angeli, Milano, 2004.
6. Ghezzani N., La logica dell'ansia, Franco Angeli, Milano, 2008.

Attività. Dell'introversione (dei numerosi disagi correlati e dei tanti pregi da valorizzare) mi occupo sia in sede di psicoterapia che di formazione culturale, individuale e di gruppo. Fornisco supervisioni a gruppi di auto mutuo aiuto. Vorrei inoltre aggiungere (si parva licet) che non pochi dei miei pazienti, collaboratori o amici sono oggi scrittori, pittori, architetti, attori, comunicatori, film-maker, ecc., oltre che, ovviamente, psicologi, psicoterapeuti e counselor. Questo perché ho trattato l'introversione non solo nel senso della cura delle sue conseguenze dolorose, ma anche — e forse soprattutto — nel senso del “risveglio” delle sue risorse intrinseche, del talento personale ivi celato, favorendo in tal modo la formazione di quella minoranza creativa che è, in ogni epoca, il vero motore delle innovazioni culturali e ideali.

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