Nucleo ideale dell'iniziativa

di Nicola Ghezzani

Linee storiche

Con la pubblicazione, nel 2002, del libro Volersi male misi a punto per la prima volta nella forma estesa e organica di un libro le mie intuizioni relative all'idea che l'iperdotazione psichica (emozionale e intellettiva) sia la caratteristica saliente di una quota di popolazione posta a metà strada fra l'attitudine empatica e riflessiva e la condanna al disagio psichico.

Questo concetto l'avevo già espresso con estrema lucidità in un mio testo del 2000, rimasto purtroppo inedito. Il testo si intitolava “Il delirio e l'armonia del mondo” e portava come sottotitolo: “Il significato sociobiologico della psicosi”. Scrissi questo testo su richiesta del mio amico e maestro di psicoterapia Luigi Anepeta, che mi propose di fare un libro comune sulla schizofrenia da presentare al mio editore. Alla fine, il testo da lui redatto risultò più lungo del mio, sicché decisi di lasciare campo libero a Luigi — che non aveva ancora ottenuto una pubblicazione all'altezza dei suoi meriti — favorendo la sua pubblicazione, compendiata da qualche nota (messa poi in appendice) estrapolata dal mio testo. In fondo, pensai, il mio lavoro avrebbe potuto essere pubblicato, un giorno, come volume autonomo. Se ciò poi non accadde fu perché i miei interessi furono attratti rapidamente da altri temi.

I miei due testi (quello del 2000 e quello del 2002) sono l'uno con l'altro sinergici e interconnessi. Nel primo enuncio in forma intuitiva e sintetica ciò che nel secondo è sviluppato nel corso di molti capitoli.

La mia tesi non voleva in alcun modo suggerire che ogni disagiato psichico sia un iperdotato mentale. Il disagio psichico nasce da molte e diverse condizioni di partenza, fra cui un ambiente anormale, carente o persecutorio. Non di meno, e allo stesso titolo, una delle più frequenti condizioni di partenza del disagio psichico è proprio questa di una iperdotazione di carattere emotivo e/o intellettivo (intuitivo-riflessivo) mal compresa e mal gestita da un ambiente inadeguato al suo armonico sviluppo.

Quindi:

  • non ogni disagiato psichico è un iperdotato mentale;
  • e non ogni iperdotato mentale è un disagiato psichico;
  • e tuttavia con buona dose di realismo si può affermare che ogni iperdotato mentale sperimenta nel corso della vita un certo rischio di ammalare nella psiche.

Ecco come articolavo questo concetto nel mio scritto del 2000 dedicato alla psicosi:

Abbiamo sin qui presentato due ipotesi correlate: la prima è sul carattere genetico (la sensibilità) che distingue la quota di popolazione a rischio psicopatologico; la seconda è sul significato sociobiologico di questo carattere.
Le osservazioni sulla psicopatologia e particolarmente sulla schizofrenia sembrano confermare il postulato assiomatico della psichiatria biologica dell'esistenza di una predisposizione genetica alla psicopatologia, assioma corroborato dall'evidenza di alcuni dati: innanzitutto la presenza effettiva dei cosiddetti “fattori predisponenti”; quindi, la regolare distribuzione statistica nella popolazione globale.
Tali osservazioni, tuttavia, lungi dal risultare per noi scoraggianti, costituiscono proprio quanto ci ha portati a formulare la nostra ipotesi teoretica centrale, un'ipotesi psicosociogenetica: il carattere genetico differenziale di quella quota di soggetti che, in casi-limite, giunge alla psicopatologia, è la sensibilità.

“Ho ricevuto da [alcuni scienziati] lettere dove dicevano che erano completamente d'accordo con me: che […] non esisteva alcuna vera ragione che autorizzasse la psichiatria a sostenere una relazione genetica per la schizofrenia [e, di conseguenza, per tutti gli altri disturbi psichici di minor gravità]. Badi bene, anche se esistesse, ciò non vorrebbe dire altro che esiste un certo stile psicologico che è odiato e boicottato dalla nostra società” (1995, p. 374).

Ebbene, questo “stile psicologico” cui si riferisce Laing è, nella nostra ipotesi, il carattere genetico differenziale costituito dalla sensibilità.
La seconda ipotesi da noi avanzata è che la sensibilità (e in particolare quella a orientamento riflessivo, ossia introversivo) ha una precisa funzione sociobiologica: la funzione di ottimizzare, armonizzandole, le interazioni umane. Coerentemente a ciò, quando unita alla dotazione intellettiva, la sensibilità ha la funzione sociobiologica di elaborare le strutture segniche, di significato, che guidano l'evoluzione della cultura, cioè di quella “seconda natura” in cui procede l'evoluzione dell'uomo. Dunque, la sensibilità assolve alla funzione di ottimizzare le interazioni umane in due modi: da una parte armonizzandole affettivamente; dall'altra trasformando la loro struttura segnica — i sistemi di valori — qualora essa disfunzioni. Salta subito all'occhio che queste due forme di reazione proprie della sensibilità possono facilmente entrare in reciproca contraddizione.
La sociobiologia della sensibilità riflessiva rivela che la specie produce una quota di soggetti maggiormente predisposti di altri a sentire, intuire, pensare la fonte dei significati (l'Altro) al livello della percezione delle relazioni sistemiche e dell'armonia globale. Perché? La risposta che si può ora fornire penso sia questa: allo scopo di tener viva la riflessione sui significati, cioè sulla cultura, la seconda natura dell'uomo; dunque allo scopo di tener viva la riflessione sulle potenzialità autopoietiche della specie. Di fatto, attraverso l'evoluzione culturale la specie umana prosegue il suo adattamento a se stessa (alle sue complesse caratteristiche neurobiologiche) e al mondo naturale.
La sensibilità, assieme all'intelligenza cognitiva e logico-operativa, è lo strumento elettivo di questo adattamento.
In tal senso, data la complessità crescente dei sistemi umani e dato il crescente potere di intervento tecnologico della specie su se stessa, gli individui sensibili — e fra questi gli schizofrenici — possono essere considerati le sentinelle del possibile fallimento sociobiologico, autopoietico, dell'uomo; quindi, della sua possibile estinzione.

Poiché questi concetti furono ripresi, perfezionati, nel libro del 2002 “Volersi male”, finalmente pubblicato, non ho alcun imbarazzo nel rivendicare la paternità circa la loro intuizione e la loro formulazione e ad assumermene la difficile responsabilità scientifica. Mi pare di essere stato il primo, almeno qui in Italia e a mia conoscenza, a formulare una simile ipotesi.

Sono altresì consapevole che nell'era di Internet l'identità dell'autore — rispecchiata e autenticata dalla “sua” idea — s'è diluita a un punto tale da non esistere più. Siamo in un'epoca nella quale l'idea di situare un concetto in una precisa genealogia storica, che indichi il “luogo” (attraverso la pratica tradizionale della citazione) nel quale per la prima volta esso è comparso è divenuta implausibile e quasi ridicola. Ormai un concetto nasce in un luogo per riapparire un istante dopo in altri centomila, per esservi variato in modi pensati o casuali. Le idee ormai, con il loro potere magnetico di adesione, con la loro velocità di replicazione più o meno variata e la loro diffusione globale, sovrastano il singolo individuo. Sono creature mediatiche dotate di potenza autonoma. In un certo senso, esse vivono al di fuori del tempo e dello spazio tradizionali, sicché il concetto di “proprietà dell'idea” — come già quello di “diritto d'autore” — sono messi in una posizione rischiosa e di dubbio.

Nondimeno, trasmettere un'idea completa della sua origine disegna una traccia, delinea assieme all'impulso di avvio il suo percorso potenziale.

Il nucleo ideale

La sofferenza così come la conosciamo — è la mia idea, il nucleo ideale della mia concezione — non è il prodotto di una ipo-dotazione, di una carenza genetica nella sintesi di una qualche proteina, bensì di una iper-dotazione, una qualità distintiva nell'ordine di qualità affini: sensibilità, empatia, intuizione, introversione, riflessività, immaginazione, creatività.

Impossibile peraltro scindere in quest'idea originale almeno tre delle qualità citate, che rappresentano tre movimenti dialettici nel progresso verso la creazione immaginaria:

  • la sensibilità sta alla base della percezione empatica (emotivo-intellettiva) innata dell'armonia che avvertiamo nei rapporti bio-psicologici col mondo somatico e naturale (cioè che avvertiamo nei rapporti dell'io col proprio corpo, e del corpo con la natura umana e non umana intorno a sé). La sensibilità, dunque, ci suggerisce, per analogia e per analisi differenziale, il “bello” e il “brutto” che sperimentiamo nella vita, e ciò sin dalla nascita, essendo essa una qualità inerente il soma, il corpo: il fatto elementare di vivere.
  • La riflessività (già presente nel bambino piccolo) ci consente di farci un'idea critica del mondo, un'idea investita e accompagnata da processi di desiderio e quindi di correzione immaginaria (armonia) dell'esistente. Questa idea critica del mondo, se avvertita come pericolosa per la nostra integrità fisica o psichica, viene sottratta, negata alla comunicazione sociale, ossia nascosta nell'interiorità, generando in tal modo l'introversione.
  • La creatività, infine, è quella funzione della mente grazie alla quale il prodotto della critica soggettiva e dell'immaginazione alternativa raggiunge il livello dell'oggetto mentale intrasoggettivo (diviene cioè un'idea chiara e distinta) e può pertanto esteriorizzarsi in opere d'ingegno condivise — o comunque condivisibili — con gli altri. La creatività è dunque una qualità attiva, che nega, supera, la passività del processo introversivo.

Se la nevrosi trasforma il soggetto sensibile e creativo in un individuo che potremmo definire criptoarmonico (ossia, nel quale la potenzialità di armonia è nascosta), la creatività sana ne fa un individuo armonico a tutti gli effetti.

La criptoarmonia — la malinconia nostalgica di una felicità perduta e percepita come inarrivabile; l'ansia di raggiungerla o di perderla ancora; la rivendicazione rabbiosa di essa; il desiderio invidioso di sottrarla a un altro; il sentimento di colpa per averla persa; l'esaltazione maniacale di possederla per magia ecc. — è forse il carattere più tipico della nevrosi.

L'individuo sensibile e creativo sa di averla avuta in dote e intuisce altresì che essa coincide innanzitutto con la propria intrinseca e più o meno nascosta armonia psichica; quindi, in un secondo momento, con l'oggettivazione di questa armonia in un atto di condivisione.

Una visione prospettica

L'intento di questo sito, che intende accompagnare la vita dell'ASIP (Associazione per lo Studio delle Iperdotazioni psichiche e delle Psicopatologie correlate), è di contrastare con ogni mezzo culturale e pratico la vieta ideologia che la sofferenza mentale sia il prodotto di una minorità biologica; e di contrastarla in particolare mediante l'ipotesi opposta: che la sofferenza psichica — anche grave — sia il più delle volte il prodotto di iperfunzioni quali la sensibilità, l'introversione, la creatività deviate dal loro sviluppo naturale.

Inoltre, che la corretta educazione sociale di queste doti o la loro reintegrazione nella salute (qualora siano andate incontro a un processo patologico) genera individui di straordinaria ricchezza morale e intellettuale, contribuendo in tal modo alla migliore integrazione dell'uomo con se stesso e col mondo intorno a sé.

Questa visione prospettica, calata in un sito, ci induce a immaginarlo come un ventaglio che si apre o come una radice che affonda nella terra alla ricerca di sempre nuove direzioni. Direzioni che includeranno — è agevole prevederlo — ricerche e confronti sulla natura umana, sull'evoluzione di specie e lo sviluppo personale delle sue qualità emergenti (i “talenti”), sulla ricchezza e la miseria dell'affettività e dell'intelletto individuali, sulla creatività affettiva, sociale, simbolica, sui suoi rappresentanti, quelli riusciti, quelli meno e quelli che son falliti nello sviluppo della loro vocazione. Nell'ottica di una crescita delle nostre conoscenze e della nostra umanità.

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